Ri-leggere Roberto Longhi: “Giotto spazioso”

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  • เผยแพร่เมื่อ 28 มิ.ย. 2024
  • Ri-leggere Roberto Longhi: “Giotto spazioso”.
    Articolo redatto da Piero Offidani per la rubrica collegArti in occasione dell'incontro della rassegna, curata da Daniele Benati, “Ri-leggere Roberto Longhi”.
    31 marzo 2019
    Ri-leggere Roberto Longhi: "Giotto spazioso".
    Piero Offidani
    Domenica 31 marzo, presso il DAMSlab, si è tenuto il secondo incontro della rassegna, curata da Daniele Benati, “Ri-leggere Roberto Longhi”: un’iniziativa alquanto interessante che ha affidato alle voci di due attrici professioniste, Alessandra Frabetti e Marcella De Marinis, la “ri-lettura”, appunto, di alcune delle più note e affascinanti pagine del grande studioso. Quest’ultimo appuntamento, introdotto da Fabio Massaccesi, ha permesso di ascoltare e apprezzare, sotto una nuova luce, il celebre articolo Giotto spazioso, pubblicato sul numero 131 di “Paragone”, nel 1952.
    Al fine di delineare al meglio la concezione di intellettuale secondo Roberto Longhi, ma anche di contestualizzare storicamente Giotto spazioso e la rivista su cui venne pubblicato, Massaccesi ha voluto ricordare una lettera, custodita oggi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, che lo studioso inviò al suo allievo Francesco Arcangeli il 29 marzo 1949. Nella missiva, con la quale si congedava, dopo quindici anni, dall’insegnamento accademico bolognese per assumere la cattedra fiorentina, Longhi si lamenta a riguardo della “confusione mentale” che contraddistingueva, secondo lui, diversi periodici del tempo che trattavano d’arte ed esprime, perciò, l’intenzione di fondare “una nuova rivistina mensile” che si occupasse esclusivamente di critica d’arte “in modo normativo, polemico” e “popolare”. Una rivista perciò, come Longhi specifica subito dopo, “adatta a un pubblico più largo che non sia quello dei soliti sette specialisti”, i quali si distinguevano sempre più, a suo modo di vedere, per “debolezza” ed “inefficienza”. Egli pertanto invita caldamente Arcangeli ad aderire all’iniziativa e ad unirsi al gruppo di giovani studiosi - da Ferdinando Bologna a Giuliano Briganti, da Mina Gregori fino a Federico Zeri - che costituiva, al tempo, il nerbo principale della “forza dei longhiani”. Il progetto, è noto, sarebbe approdato circa un anno dopo, con l’uscita del primo numero di “Paragone”, rivista che ha cambiato decisamente le sorti della storiografia d’arte italiana.
    Giotto spazioso, del 1952, ben riflette gli intenti divulgativi espressi nella lettera del ‘49. Punto di partenza per la riflessione longhiana sono, in questo caso, i due “inganni ottici” che Giotto dipinse, a Padova, nell’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni, in un periodo compreso fra il 25 marzo 1303 - ovvero la festività dell’Annunciazione a cui la chiesa era dedicata - e il 25 marzo 1305, giorno della consacrazione dell’edificio. Indelebile, per chiarezza e sintesi, rimane la descrizione che Longhi fece di questi incredibili brani pittorici: “Due vani gotici, dei quali, riparati come sono da un parapetto a lastra rettangolare, non vediamo che l’alto delle pareti a specchi di marmo mischio, la volta a costole gotiche dalla cui chiave pende una lumiera di ferro a gabbia con le sue fiale d’olio e la bifora stretta e lunga, aperta sul celo. Figure, nessuna”. Contrariamente a quanto riguarda le restanti scene sacre commissionate da Enrico Scrovegni, Longhi notò come la critica, fino a quel momento, si fosse concentrata solo parzialmente su tali rivoluzionarie raffigurazioni.
    Secondo il suo parere, infatti, da Giovanni Battista Cavalcaselle - che aveva cercato in esse un significato allegorico - ad Andrea Moschetti, fino a Friederich Rintelen - autore, nel 1912, di un celebre saggio giottesco - non era stata adeguatamente messa a fuoco la loro effettiva importanza dal punto di vista storico-artistico, venendo anzi trattate in maniera piuttosto sbrigativa. Fu per primo Curt H. Weigelt, nel 1925, a concentrare su di esse una maggiore attenzione, accennando giustamente ad “un mite illusionismo” che le contraddistingue, senza però approfondire oltre questo fondamentale aspetto. Si sarebbero pertanto dovuti aspettare, secondo Longhi, gli studi di Giuseppe Fiocco del 1937 - che ipotizzava l’influenza esercitata su Giotto da Arnolfo di Cambio in veste di architetto - e soprattutto il celebre Trecento, del 1951, del suo maestro Pietro Toesca per aver una lettura più corretta dei due “coretti segreti” padovani. Toesca, in particolare, ben specificò come, a Padova, Giotto, dopo gli esperimenti architettonici assisiati, “seguita ad affrontare la prospettiva per se stessa, quasi a sfidarne i problemi”, come avviene appunto ai due lati del presbiterio della Cappella degli Scrovegni, dove “finge, per semplice gioco prospettivo, due arcate aperte da cui pendono lampade poligonali”. Proprio da questa lettura - che vedeva finalmente nei due brani pittorici non astratti significati allegorici bensì un puro e davvero innovativo tentativo di imitare lo spazio reale - Longhi ritenne che ...

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