Giacomo Leopardi: IL SOGNO . Le videopoesie di Gianni Caputo

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  • เผยแพร่เมื่อ 12 ก.ย. 2024
  • Giacomo Leopardi: IL SOGNO . Le videopoesie di Gianni Caputo - I classici della poesia italiana - nuova versione 2019
    Era il mattino, e tra le chiuse imposte
    per lo balcone insinuava il sole
    nella mia cieca stanza il primo albore;
    quando in sul tempo che più leve il sonno
    e più soave le pupille adombra,
    stettemi allato e riguardommi in viso
    il simulacro di colei che amore
    prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
    Morta non mi parea, ma trista, e quale
    degl'infelici è la sembianza. Al capo
    appressommi la destra, e sospirando,
    vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
    serbi di noi? Donde, risposi, e come
    vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
    di te mi dolse e duol: nè mi credea
    che risaper tu lo dovessi; e questo
    facea più sconsolato il dolor mio.
    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
    Sei tu quella di prima? E che ti strugge
    internamente? Obblivione ingombra
    i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
    disse colei. Son morta, e mi vedesti
    l'ultima volta, or son più lune. Immensa
    doglia m'oppresse a queste voci il petto.
    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
    quand'è il viver più dolce, e pria che il core
    certo si renda com'è tutta indarno
    l'umana speme. A desiar colei
    che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
    l'egro mortal; ma sconsolata arriva
    la morte ai giovanetti, e duro è il fato
    di quella speme che sotterra è spenta.
    Vano è saper quel che natura asconde
    agl'inesperti della vita, e molto
    all'immatura sapienza il cieco
    dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
    taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
    con questi detti il cor. Dunque sei morta,
    o mia diletta, ed io son vivo, ed era
    pur fisso in ciel che quei sudori estremi
    cotesta cara e tenerella salma
    provar dovesse, a me restasse intera
    questa misera spoglia? Oh quante volte
    in ripensar che più non vivi, e mai
    non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
    creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
    che morte s'addimanda? Oggi per prova
    intenderlo potessi, e il capo inerme
    agli atroci del fato odii sottrarre.
    Giovane son, ma si consuma e perde
    la giovanezza mia come vecchiezza;
    la qual pavento, e pur m'è lunge assai.
    ma poco da vecchiezza si discorda
    il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
    disse, ambedue; felicità non rise
    al viver nostro; e dilettossi il cielo
    de' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
    soggiunsi, e di pallor velato il viso
    per la tua dipartita, e se d'angoscia
    porto gravido il cor; dimmi: d'amore
    favilla alcuna, o di pietà, giammai
    verso il misero amante il cor t'assalse
    mentre vivesti? Io disperando allora
    e sperando traea le notti e i giorni;
    oggi nel vano dubitar si stanca
    la mente mia. Che se una volta sola
    dolor ti strinse di mia negra vita,
    non mel celar, ti prego, e mi soccorra
    la rimembranza or che il futuro è tolto
    ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
    o sventurato. Io di pietade avara
    non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
    che fui misera anch'io. Non far querela
    di questa infelicissima fanciulla.
    Per le sventure nostre, e per l'amore
    che mi strugge, esclamai; per lo diletto
    nome di giovanezza e la perduta
    speme dei nostri dì, concedi, o cara,
    che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
    soave e tristo, la porgeva. Or mentre
    di baci la ricopro, e d'affannosa
    dolcezza palpitando all'anelante
    seno la stringo, di sudore il volto
    ferveva e il petto, nelle fauci stava
    la voce, al guardo traballava il giorno.
    Quando colei teneramente affissi
    gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
    disse, che di beltà son fatta ignuda?
    e tu d'amore, o sfortunato, indarno
    ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
    Nostre misere menti e nostre salme
    son disgiunte in eterno. A me non vivi
    e mai più non vivrai: già ruppe il fato
    la fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
    gridar volendo, e spasimando, e pregne
    di sconsolato pianto le pupille,
    dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
    pur mi restava, e nell'incerto raggio
    del Sol vederla io mi credeva ancora.

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