L’irregolarità di Giuseppe Berto tra scrittura e vita

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  • เผยแพร่เมื่อ 5 ก.พ. 2025
  • “Essere scrittore coinvolge tutta intera la personalità d’un uomo, la sua parte conscia e la sua parte inconscia” scrive Giuseppe Berto ( Mogliano Veneto, 27 dicembre 1914 - Roma, 1 novembre 1978), sceneggiatore e uno degli scrittori più irregolari, anomali e anarchici della letteratura italiana.
    Cresciuto nell’impegno di fedeltà alla patria, il giovane Berto per due volte si arruola volontario, partecipando prima (1935-1939) alla guerra in Abissinia (La colonna Feletti. I racconti di guerra e di prigionia, 1940); e poi, nel 1942, alla volta dell’Africa settentrionale, tra le file delle Camicie Nere (Guerra in camicia nera, 1955).
    Ma è lontano dall’Italia, nel campo di prigionia di Herefeord, in Texas (1943-1945) - dove compagni sono anche Alberto Burri, Gaetano Tumiati e Dante Troisi - che inizia la sua grande stagione letteraria, che comprende alcune delle opere indimenticabili della letteratura italiana: Le opere di Dio (1944); Il cielo è rosso (pubblicato da Longanesi nel 1947 su segnalazione di Giovanni Comisso, presto diventato successo internazionale e vincitore del Premio Firenze); il capolavoro bestseller dal titolo gaddiano Il male oscuro (1964), vincitore nello stesso anno dei Premi Viareggio e Campiello; La cosa buffa (1966), La gloria (1978), monologo di quel Giuda traditore, predestinato strumento per realizzare “le opere di Dio”.
    Non c’è Bene senza Male, non c’è soluzione a quel senso di colpa, a quel male universale, che chiama in causa anche la sfera religiosa, e che accomuna tutti gli esseri umani, di fronte a cui naufragano la prospettiva del sogno socialista (Il brigante, 1951) e quella dell’amore (La cosa buffa, 1966).
    Non c’è rimedio per la sofferenza e la solitudine, perché il male “è in tutti gli uomini insieme. E tutti dobbiamo patire per il male di tutti, anche quelli che non ne hanno colpa”, leggiamo ne Il cielo è rosso.
    E in questa “evenienza abbastanza strampalata” che è la vita, forse l’unica possibilità, sembra indicarci lo scrittore, è l’arte del compromesso”, è un “assennato accomodamento” con la vita stessa. Ma è anche il rapporto con la natura (Oh, Serafina, 1974, Premio Bancarella), quella natura appartata e incontaminata da cui poter vedere la Sicilia, “luogo della mia vita e anche della mia morte”, il narratore ci dice nel Il male oscuro.
    Ma è anche la natura di Capo Vaticano, dove in due mesi Berto scrisse il suo capolavoro, e che scelse come luogo dell’anima.
    Saverio Vita è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Si occupa di letteratura italiana contemporanea, con un particolare interesse verso le scritture dell’io. Ha dedicato una parte importante delle proprie ricerche alla figura di Giuseppe Berto, prima attraverso sondaggi parziali pubblicati su rivista, poi in volume, con la pubblicazione della monografia Un folgorato scoscendere. L’opera narrativa di Giuseppe Berto (Giorgio Pozzi, 2021).

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