Furore, l'altra faccia della Costiera - di Nino D'Antonio
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- เผยแพร่เมื่อ 1 ธ.ค. 2024
- Siamo cresciuti insieme, Furore e io, sia pure con un comprensibile diverso destino. Io verso stagioni sempre più gravose e grigie, il paese nel solco di una notorietà ormai consacrata. C’eravamo conosciuti per caso, in un maggio di tanti anni fa (quaranta e passa), quando i napoletani cominciavano a muoversi in Seicento per le prime gite (si chiamavano ancora così) fuori città. Un fenomeno timido e discontinuo, dopo gli anni bui della guerra, che tuttavia annunciava una svolta nelle abitudini di gestire il giorno di festa.
E ad Arturo Assante, consumato cronista, prima che responsabile de "Il tempo di Napoli", la cosa non poteva sfuggire.
Punta sui paesi meno conosciuti. Allarghiamo il discorso. Non c’è solo Amalfi e Sorrento. Ma voglio storie, curiosità, personaggi. La gente deve muoversi sapendo perché…
Inizia così il mio tour in quelle realtà "minori" della Campania, che presentavano una qualche vocazione a questo turismo di piccolo cabotaggio. Già largamente accreditata dalle sue terme, Castellammare fu il nodo da sciogliere. Continuare lungo i centri della Costa, o abbandonarli a vantaggio dell’entroterra, seguendo magari l’antico tracciato borbonico che si avvita, tormentato ed imprevedibile fino ad Agerola?
Scelsi la via che sale ai Monti Lattari, a fatalmente mi trovai a Furore. Mi aveva incuriosito la veloce considerazione del sindaco Camillo Villani, all’uscita del municipio a Pianillo: - Da qui fino ad Amalfi non c’è niente. Solo vigneti e terrazze. La punta di Bomerano è la nostra Eboli. Solo che da queste parti non c’è stato Levi.
Raggiunsi quel confine di civiltà che era la Punta, e mai il termine panorama mi sembrò più appropriato: vedevo veramente tutto. Il mare infinito che sembrava a portata di mano ed è invece lontano chilometri, le poche case sparse in un’orgia di verde, il gioco dei tetti, qualche isolato campanile rivestito con maioliche di risulta. E, intorno, ad accompagnare l’andamento della strada, la maestà della roccia dolomitica, suggestiva e incombente. Cercai il paese. E lo cercai inutilmente. Furore era solo una targa malconcia dell’Anas. Niente Municipio, niente edificio scolastico, neppure l’ombra del più modesto spazio che facesse da punta di incontro. Nessun bar. Ripercorsi almeno due volte la strada fino al bivio di Conca sulla mia incerta Topolino, ma del paese nessuna traccia. Poi la scoperta di un’insegna a carattere di legno.
Con elementare geometrismo c’era scritto Bacco.
Il mio racconto potrebbe finire qui. E, invece, e’ da qui che ha inizio, perché entrare da Bacco segno’ l’inizio del mio legame con Furore, che a onta degli anni, degli interessi e dei gusti che pure cambiano, non ha conosciuto né cedimenti né incertezze.
Bacco: una sala interna, le volte con decori semplici opere di un mastro che si dilettava di pittura ( per fortuna ancora lì a testimoniare la matrice della Casa), e una grande terrazza protetta a metà da un’incannucciata, pochi tavoli e in fondo il pollaio. Non avevo scelta, e mai questa limitazione si rivelò più fortunata. Don Andrea mi propose uno spaghetto “grillo” ( che per lui voleva dire al dente), e un mezzo pollo fritto. Chiesi intanto del paese ( ma era tutto lì, in quella strada che portava ad Amalfi), della gente, di qualcosa che meritasse di essere vista, raccontata.
Una bambina, avrà avuto intorno ai dieci anni, apparecchiò e servì con grande cura. Mi colpì la sua grazia e il taglio degli occhi. “Mi chiamo Angelina. E voi?”?
Per Don Andrea non fu necessario fare domande. Esplose in uno sfogo irrefrenabile nel quale a ogni pausa non faceva che ripetere. “Scrivete, scrivete”. Per poi riprendere: “Niente, non c’è niente. Qui manca tutto: l’impianto per l’acqua, la luce per le strade, la scuola, il municipio, il cimitero”. Della lunga elencazione mi colpì l’assenza del cimitero. Di paesi del Sud che mezzo secolo fa mancassero quasi di tutto, era quasi la norma. Ma almeno il cimitero ce l’avevano. E invece, a Furore, mancava anche quello. Pensai che probabilmente si servivano del cimitero di Agerola, o di quello di Conca dei Marini, comune al quale Furore era stato accorpato fino al 1947. No, no - precisò Don Andrea - qui abbiamo le fosse carnaie.
L’espressione aveva una sua crudezza e non mancò di colpirmi. Stavo scoprendo un tipo di sepoltura anteriore all’istituzione dei cimiteri e a quel famoso editto di Saint Cloud che Napoleone estese all’Italia nel 1808. A questo punto Don Andrea Ferraioli non ebbe più spazio per rivendicare tutte le necessità del paese. Le fosse carnaie diventarono l’argomento principe, anche dopo l’arrivo del sindaco maestro, Vincenzo Florio, che come tutti i giorni aveva fatto scuola in una casa privata gestendo più classi in un unico ambiente. La posizione di centro-destra del Tempo, assai vicina a Florio, favorì l’avvio di una chiacchierata prima e di un’amicizia poi, mantenute vive per anni nel corso delle mie frequenti presenze a Furore...