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Piergiorgio Grizzo
Italy
เข้าร่วมเมื่อ 18 พ.ค. 2017
"Italian journalist and writer Piergiorgio Grizzo tells about his travels. Near home, in the shocking region of Friuli Venezia Giulia, or at the other end of the world. Ideas and advice for those who are tired of the conventional tourism usual routes. For those who prefer to leave the highways and go along the narrow streets of the province. Unusual travel diaries videos, or the usual travels, but lived and talked about from unfocused, irreverent, critical and politically uncorrect point of views. And, occasionally, some talk about the topic of free sex, drugs and rock n'roll. "
F.C.
F.C.
MAURO CORONA RACCONTA I "RAGAZZI DELLO ZOO DI ERTO"
Si chiamavano tra loro, per prendersi in giro, i ragazzi dello zoo di Erto. Drogati anche loro, come quelli di Berlino, ma di montagna e di avventura. Erano giovani friulani e bellunesi, che arrivavano in moto o in autostop con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, per trovarsi in quella terra di mezzo, attirati da una passione che stava nascendo fortissima, irresistibile.
Eravamo agli albori dell'arrampicata sportiva, del free climbing come dicevano gli americani.
Uno yoga in verticale. Muscoli e sudore, ma anche meditazione, introspezione, momento lirico e intimistico. Gara con sé stessi, sfida ai propri limiti e a quelli imposti dalla gravitá.
Arrampicare in falesia come rituale iniziatico prima di affrontare la montagna. Ma anche sport compiuto, piacere fine a sé stesso, occasione per vivere l'alpinismo come momento di amicizia e aggregazione e non solo nella solitudine delle cordate, che affrontano le vette.
Grazie ad un certo Maurizio Corona, per tutti Mauro, un ragazzo di 25 anni, che faceva l'operaio in una cava di marmo e nel tempo libero scolpiva il legno e arrampicava in montagna, i climbers trovarono a Erto il loro tempio, su quella parete sferzata dall'onda apocalittica del 9 ottobre '63, la notte del disastro. L'acqua si impennó su quella ciclopica sporgenza rocciosa risparmiando il paese di Casso, che stava proprio sopra.
Una falesia che scende dritta sulla strada della Val Vajont, sopra i detriti lasciati dalla frana del monte Toc, con tanti tetti e strapiombi, ma pure traiettorie piú semplici, adatte anche a chi ha appena cominciato la sua strada tra corde, imbraghi e magnesite.
Nacque tutto per caso, succede sempre cosí per le cose belle. Era la metá degli anni Settanta.
"Era il 1975, per la precisione, un giorno qualsiasi - racconta lo stesso Mauro Corona, oggi scrittore e opinionista di successo - non avevo l'automobile, dovevo scendere a Longarone e mi feci portare dal mio amico Italo Filippin, compagno di tante gare di sci e arrampicate. Fu lui che ad un certo punto, dopo qualche tornante, indicando la parete alla nostra destra, disse: lí ne avresti da divertirti!Fu come un'epifania, una rivelazione: c'era quella roccia azzurra, fantastica. Ci ero passato davanti centinaia e centinaia di volte senza mai rendermene conto".
"L'indomani chiamai Italo, presi martello e chiodi - all'epoca non c'erano perforatori, chiodi a pressione, spit o altre cose del genere - e aprimmo la prima via. La chiamammo la Via dei pipistrelli, perché in alcune fessure stavano nascosti i pipistrelli. Poi ci spostammo un po'piú in lá e facemmo le vie della zona No Big, quella per i principianti".
"Tempo dopo - continua Corona - andai ad arrampicare con Manolo (alias Maurizio Zanolla, feltrino, altra leggenda dell'arrampicata sportiva ndr) dalle parti di Fiera di Primiero e lo vidi che bucava la roccia con un trapano, perché era stato in Francia, a scalare sul Verdon e aveva visto che lá usavano chiodi a espansione e tasselli da carpenteria. Cosí andai a comprarmi un trapano e iniziai a darci dentro".
Mauro, Italo e il gruppo di ragazzi che si era creato attorno a loro iniziarono ad aprire vie su vie, di diversi gradi di difficoltá, alle quali davano i nomi piú bizzarri: Poltergeist, Tucson, Pole position, Il ritorno di Ringo, Mani di clown...
In un epoca in cui ancora non esisteva internet il passaparola si diffuse in tutto l'arco alpino ed oltre ad una velocitá clamorosa.
L'ARTICOLO COMPLETO NEL NUMERO DI DICEMBRE 2024 DI PIANCAVALLO DOLOMITI FRIULANE MAGAZINE
Eravamo agli albori dell'arrampicata sportiva, del free climbing come dicevano gli americani.
Uno yoga in verticale. Muscoli e sudore, ma anche meditazione, introspezione, momento lirico e intimistico. Gara con sé stessi, sfida ai propri limiti e a quelli imposti dalla gravitá.
Arrampicare in falesia come rituale iniziatico prima di affrontare la montagna. Ma anche sport compiuto, piacere fine a sé stesso, occasione per vivere l'alpinismo come momento di amicizia e aggregazione e non solo nella solitudine delle cordate, che affrontano le vette.
Grazie ad un certo Maurizio Corona, per tutti Mauro, un ragazzo di 25 anni, che faceva l'operaio in una cava di marmo e nel tempo libero scolpiva il legno e arrampicava in montagna, i climbers trovarono a Erto il loro tempio, su quella parete sferzata dall'onda apocalittica del 9 ottobre '63, la notte del disastro. L'acqua si impennó su quella ciclopica sporgenza rocciosa risparmiando il paese di Casso, che stava proprio sopra.
Una falesia che scende dritta sulla strada della Val Vajont, sopra i detriti lasciati dalla frana del monte Toc, con tanti tetti e strapiombi, ma pure traiettorie piú semplici, adatte anche a chi ha appena cominciato la sua strada tra corde, imbraghi e magnesite.
Nacque tutto per caso, succede sempre cosí per le cose belle. Era la metá degli anni Settanta.
"Era il 1975, per la precisione, un giorno qualsiasi - racconta lo stesso Mauro Corona, oggi scrittore e opinionista di successo - non avevo l'automobile, dovevo scendere a Longarone e mi feci portare dal mio amico Italo Filippin, compagno di tante gare di sci e arrampicate. Fu lui che ad un certo punto, dopo qualche tornante, indicando la parete alla nostra destra, disse: lí ne avresti da divertirti!Fu come un'epifania, una rivelazione: c'era quella roccia azzurra, fantastica. Ci ero passato davanti centinaia e centinaia di volte senza mai rendermene conto".
"L'indomani chiamai Italo, presi martello e chiodi - all'epoca non c'erano perforatori, chiodi a pressione, spit o altre cose del genere - e aprimmo la prima via. La chiamammo la Via dei pipistrelli, perché in alcune fessure stavano nascosti i pipistrelli. Poi ci spostammo un po'piú in lá e facemmo le vie della zona No Big, quella per i principianti".
"Tempo dopo - continua Corona - andai ad arrampicare con Manolo (alias Maurizio Zanolla, feltrino, altra leggenda dell'arrampicata sportiva ndr) dalle parti di Fiera di Primiero e lo vidi che bucava la roccia con un trapano, perché era stato in Francia, a scalare sul Verdon e aveva visto che lá usavano chiodi a espansione e tasselli da carpenteria. Cosí andai a comprarmi un trapano e iniziai a darci dentro".
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